Celebrazione o commemorazione? L'immagine della Vittoria nei monumenti ai caduti della Prima guerra mondiale

a cura di Valentina Santoro, pubblicato il 16/04/2015

«Oh, vittoria, toccata finalmente, chiara, certa, luminosa, a cui si può offrire la propria gioia, a cui la gioia è dovuta come l’offerta del rito; oh, vittoria senza frode, a’ cui piedi si possono deporre le armi senza angoscia e abbandonarcele, domani, senza pentimento! Sei come il primo raggio di sole: tutta l’aria si muta, tutta la terra si tende, tutta la luce si avviva. E milioni di giovani in armi alzano il grido del saluto, sole nascente e sono come quei primi figli della terra che avanzano per la selva d’Europa, recando il seme del frumento e il senso del divino. Dopo millenni, l’Europa sarà di nuovo un altro mondo, domani.»

Così scriveva l’editoriale del Corriere della Sera il 12 novembre 1918. La guerra era finalmente conclusa anche sul fronte occidentale, e ora che le armi potevano essere deposte l’Italia aveva bisogno di essere rassicurata: le perdite umane e materiali, i drammi familiari, le cicatrici indelebili di un orrore che avrebbe segnato per sempre la società del tempo, andavano giustificate agli occhi di un popolo stanco e sfiduciato. Bisognava costruire - e in fretta - una memoria pubblica della guerra che appagasse i reduci e consolasse una comunità nazionale che era appena uscita dal conflitto così come vi era entrata: divisa. Doveva passare e attecchire il messaggio che la vittoria conquistata con tanto sacrificio fosse “chiara, certa, luminosa”, che i combattenti vi si potessero abbandonare con fiducia e senza pentimento, poiché essa era “senza frode”.

Non era facile raggiungere questo obiettivo. Come spiega lo storico Marco Mondini, per i reduci dal fronte la patria del 1918 aveva fin da subito vestito “i panni di una matrigna ingrata, molto lontana dall’affascinante icona della nazione adorante che riceveva a braccia aperte i propri figli eroici sopravvissuti al campo dell’onore”. La maggior parte dei veterani, infatti, accusava il paese di averne ignorato il ritorno eroico, di averli accolti con indifferenza e abbandonati, privandoli della riconoscenza dovuta dopo tanti sacrifici. La classe dirigente italiana, effettivamente, aveva scelto di rinunciare alle celebrazioni postbelliche per paura che una grande festa nazionale potesse diventare il pretesto per disordini di piazza, e questo aveva fatto mancare quel tributo di riconoscenza da parte di tutto il paese che avrebbe alleggerito le sofferenze e sollevato il morale dei reduci di ritorno in patria. La differenza con le celebrazioni in atto negli altri stati vincitori era stridente e faceva bruciare ancora di più la ferita di un popolo stanco e per di più umiliato.

Alla frustrazione e lo scontento della gente per questa grave mancanza da parte del potere centrale arrivò immediatamente risposta dalle realtà municipali di tutto il territorio italiano: una galassia di committenti (anche se eterogenei e spesso divisi da gelosie locali e clientele) diede vita a un’imponente opera di pedagogia nazionale attraverso l’erezione di migliaia di monumenti della memoria disseminati per tutte le nostre regioni. Il conforto e il riconoscimento dei sacrifici e delle sofferenze patiti dagli Italiani sarebbero arrivati al popolo tramite immagini scolpite e parole incise nella roccia o sul bronzo, con cui si sarebbe alimentato il culto dei caduti fin dal primo dopoguerra. Consegnando alla comunità il ricordo dei morti per la patria si sarebbe ricambiato il dono della vita compiuto dai soldati.

L’inaugurazione di un monumento ai caduti rappresentava un momento estremamente delicato nel processo demagogico sotteso all’erezione di una nuova opera dedicata alla comunità. La cerimonia veniva programmata con grande dispendio di energie e denaro e la presenza delle autorità era fortemente voluta dai comitati organizzatori per sottolineare la solennità del rito.

Celebrazione o commemorazione? L'immagine della Vittoria nei monumenti ai caduti della Prima guerra mondiale. PROGETTO "Grande Guerra" / Programma "500 GIOVANI PER LA CULTURA"

dal Catalogo

Cosa caratterizzava questi monumenti? Quale linguaggio parlavano e quali erano i topoi utilizzati perché il loro messaggio fosse compreso da tutti?

In generale si può sostenere che i primi monumenti ai caduti fossero caratterizzati da una grande semplicità e iscrizioni poco elaborate ma molto sentite che rispondevano velocemente all’esigenza della rielaborazione del lutto di quanti stavano vivendo il dramma della perdita di un affetto e il trauma di dolori ancora troppo recenti: opere essenziali e austere recanti i nomi dei caduti, le loro foto, iscrizioni per dare ai cari estinti l’estremo saluto, dolorosi messaggi di pubblica riconoscenza per il loro eroico sacrificio. Col passare del tempo, in particolar modo dopo il 1922, i monumenti divennero invece più complessi e costosi, portatori di messaggi retorici funzionali alle novità che si stavano affacciando al panorama politico italiano.

Ad esempio, il monumento ai caduti della cittadina di Voltido (Cr), rappresenta un tipico esempio di monumento ai caduti del primo dopoguerra. Eretto nel 1918, esso mostra una composizione molto semplice e dal messaggio immediato, riportando su tre lati le fotografie su ceramica e i nomi dei caduti e l’iscrizione sulla fronte: VOLTIDO/ AI/ GLORIOSI CONCITTADINI/ CADUTI NELLA GUERRA/ 1915-1918/ CONSACRA/ A PERPETUA VENERAZIONE.

Nel corso del tempo si accentuò la prevalenza della celebrazione sulla commemorazione, come afferma lo storico Vittorio Vidotto a seguito di un’analisi condotta da Francesco Bartolini sulle iscrizioni, che dimostra come il tema del rimpianto fosse presente esclusivamente nei primissimi anni del dopoguerra, lasciando poi il posto al culto bellicoso degli eroi dell’era fascista. Gli artisti si muovevano seguendo un’iconografia spesso stereotipata e tendenzialmente uniforme su tutto il territorio italiano che aveva come scopo principale quello di parlare ai singoli cittadini colpiti dalla tragedia della guerra. Era molto importante che i messaggi fossero semplici ed essenziali per raggiungere anche gli strati più umili della popolazione (ai tempi largamente analfabeta). La necessità di scegliere immagini che fossero facilmente comprensibili portò a soluzioni diverse: da una parte, “si optò per un registro più realistico, con statue completamente rivestite ed equipaggiate, in cui anche lo spettatore più rozzo avrebbe potuto riconoscere l’immagine nota del combattente e ritrovare la propria esperienza del fronte o il ricordo del fratello, dell’amico, del figlio scomparso”; come nel caso del monumento ai caduti della prima guerra mondiale di Vigasio – VR, uno dei numerosi esempi di rappresentazione di un soldato in uniforme che innalza al cielo il simulacro della Vittoria (Fig. 5).

Dall’altra, le statue vennero corredate da elementi simbolici tradizionali in cui lo spettatore potesse leggere un messaggio chiaro, inequivocabile e immediato: aquile, stelle, palme, corone d’alloro, fiaccole, bracieri, lampade votive, gladi, scudi, festoni arricchirono le rappresentazioni non solo con valore riempitivo e ornamentale ma soprattutto allegorico. In questo scenario, la rappresentazione della Vittoria come figura femminile alata fu largamente impiegata fin da subito come uno degli elementi portanti del linguaggio profondamente simbolico impiegato per i monumenti ai caduti. Utilizzata in numerose opere celebrative delle guerre d’indipendenza, infatti, la sua immagine era ormai familiare a una buona parte degli italiani che già a partire dagli anni Settanta del secolo precedente (ma soprattutto a partire dal 1911, in concomitanza con le celebrazioni per il cinquantenario dell’unità d’Italia, come puntualizzato da Vittorio Vidotto, si erano abituati a vedere gli spazi dei loro centri urbani invasi da figure femminili di Italie e Vittorie in funzione pedagogica e nazionalizzante (Fig. 6).

I monumenti risorgimentali avevano trovato ispirazione nel repertorio classico e ne avevano rifunzionalizzato l’iconografia per dare un nuovo messaggio politico e sociale. Nell’immediato dopoguerra, essi stessi divennero modelli a cui attingere per celebrare i caduti del conflitto mondiale. Raffigurata mentre incede recando lo scudo, il gladio (Fig. 7) e i simboli della gloria e del sacrificio (l’alloro e la palma, Fig. 8), oppure nell’atto di premiare i caduti vittoriosi porgendo il serto d’alloro o abbracciandone il corpo, la Vittoria fece la propria comparsa fin dalla fine del conflitto sulle colonne, gli obelischi, i cippi e le lapidi dei monumenti ai caduti italiani.

Seguendo gli schemi semplici e stereotipati sopra descritti, essa fu largamente impiegata come portatrice di un messaggio immediato e comprensibile ai più, un messaggio di gloria, speranza e fiducia nel futuro. Il sacrificio dei propri cari caduti per la patria non era stato vano. La Vittoria, incedente e ascendente con sicurezza e leggiadria, avrebbe rassicurato lo spettatore dolente, a imperituro ricordo che tanta sofferenza patita sarebbe valsa come tributo per un domani luminoso e sereno, il dono per coloro che restavano da chi aveva dato la propria vita con coraggio, altruismo e amor di patria (Fig. 9). Non c’è arroganza né rigidità nelle figure femminili raccolte dal repertorio classico per affrontare temi così delicati. Le Vittorie raffigurate sui monumenti del primo dopoguerra ben si prestano a rappresentare il cordoglio delle famiglie, delle madri e mogli che rivedevano in parte se stesse, in parte un angelo accudente e rassicurante, in quelle dolci figure femminili abbracciate ai soldati morenti (Fig. 10).

In molti casi una stretta commistione con la scultura funeraria rendeva ancora più coinvolgenti e patetiche le scene di interazione con i combattenti feriti o morenti (Fig. 11), e quelle figure femminili alate diventavano rappresentazioni ibride, tanto Vittorie quanto angeli, protagoniste di scene dolorose e affini a iconografie cristiane quali la Pietà o l’ascensione al Paradiso, promessa di immortalità e di resurrezione (Fig. 12).

In conclusione, nel primo dopoguerra, l’immagine della Vittoria fu impiegata a scopo commemorativo, non solo per la sostanziale omogeneità nei tipi e nell’apparato iconico con i precedenti monumenti risorgimentali, ma anche perché essa ben si prestava al coinvolgimento emotivo richiesto dalla committenza.

Nel corso del tempo, però, le nuove necessità della politica monumentale fascista andarono a cambiare radicalmente il tipo di rappresentazione della Vittoria alata, stravolgendone il significato e impiegandone largamente l’immagine con tutt’altro scopo. Per enfatizzare le conquiste territoriali ottenute dalla guerra e il legittimo status di potenza civilizzatrice che ciò conferiva all’Italia fascista di Roma, il fascismo muterà l’immagine della Vittoria in una rigida e trionfalistica figura stante, dallo sguardo fiero e l’atteggiamento volitivo (Fig. 13). Il regime fascista si approprierà del culto dei caduti; la commemorazione lascerà il posto alla celebrazione, ma le Vittorie alate resteranno, reinterpretate e nuovamente strumentalizzate, foriere di nuovi messaggi propagandistici quanto mai distanti dalla precedente accezione pietosa e discreta.

Fig. 1: "Vittoria!", pagine per i soldati, Maggio 1918. Sul foglio si sostiene che “la guerra ci ha insegnato o riinsegnato tangibilmente due cose anzitutto, che siamo una nazione e che c’è prima d’ogni altro, l’interesse di questa nazione da tutelare per noi”. Biblioteca Universitaria Alessandrina
Fig. 1: "Vittoria!", pagine per i soldati, Maggio 1918. Sul foglio si sostiene che “la guerra ci ha insegnato o riinsegnato tangibilmente due cose anzitutto, che siamo una nazione e che c’è prima d’ogni altro, l’interesse di questa nazione da tutelare per noi”.

Fig. 2: Disegno al carboncino e acquarello di Raffaello Jonni, 1916. Disegno satirico raffigurante il custode di un museo che mostra ad un visitatore la statua della vittoria italiana nascosta da un telo: “quella, signore, è la vittoria italiana; ma è coperta per non offendere gli alleati, che potrebbero farci morire di fame”. Biblioteca Universitaria Alessandrina
Fig. 2: Disegno al carboncino e acquarello di Raffaello Jonni, 1916. Disegno satirico raffigurante il custode di un museo che mostra ad un visitatore la statua della vittoria italiana nascosta da un telo: “quella, signore, è la vittoria italiana; ma è coperta per non offendere gli alleati, che potrebbero farci morire di fame”.

Fig. 3: Cartolina postale dell’inaugurazione del monumento ai caduti di Ronciglione, 18/06/1922 Foto Collezione F.F. Fabbri di Ronciglione, da P. Guerrini, M. Vittucci, II Lazio e la Grande Guerra, Castrocielo (FR) 2001, p. 108.
Fig. 3: Cartolina postale dell’inaugurazione del monumento ai caduti di Ronciglione, 18/06/1922

Fig. 6: Colonna rostrata, monumento eretto per celebrare la vittoria di Lissa (battaglia navale della Terza guerra di indipendenza italiana del 1866), trasferita nei Giardini della Biennale di Venezia nel 1929. Fig. 6: Colonna rostrata, monumento eretto per celebrare la vittoria di Lissa (battaglia navale della Terza guerra di indipendenza italiana del 1866), trasferita nei Giardini della Biennale di Venezia nel 1929.

Bibliografia

M. Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914 - 1918, Bologna, 2014

V. Vidotto - B. Tobia - C. Brice (a cura di), La memoria perduta: i monumenti ai caduti della Grande Guerra a Roma e nel Lazio, Roma, 1998

V. Vidotto, La Vittoria e i monumenti ai caduti, Mélanges de l'école française de Rome, 112 - 2, 2000

B. Tobia, Una patria per gli italiani: spazi, itinerari, monumenti nell'Italia unita (1870 - 1900), Roma - Bari, 1991

S. Battisti, La fabbrica dell'arte: tipologie e modelli, La memoria perduta: i monumenti ai caduti della Grande Guerra a Roma e nel Lazio, Roma, 1998

S. Gnisci, La provincia di Viterbo e il culto dei caduti della Grande Guerra, Il Lazio e la Grande Guerra, 2001