Gli alpini e la Grande Guerra
In una società italiana appena nata, dove le percentuali di analfabetismo erano ancora molto elevate, era spesso compito delle immagini figurative dover trasmettere contenuti culturali e miti patriottici. Nell’immediatezza delle incisioni e dei disegni, elementari nei tratti e di facile rappresentazione, acquistava forza di penetrazione e poteva essere recepito da una popolazione incapace o disabituata alla lettura. Ritti su uno sperone, una mano al fianco e l’altra e reggere il fucile, lo sguardo teso verso l’orizzonte, il portamento saldo e vigoroso, essi erano innanzi tutto i garanti dell’inviolabilità dei confini, come confermavano i loro motti “di qui non si passa”, “vedette dei culmini”, “vigilantes”. L’impostazione iconografica serviva a trasmettere un messaggio rassicurante: l’Alpino era un baluardo insuperabile, un difensore granitico della nazione, vigile in ogni momento e con qualsiasi tempo. Attraverso queste raffigurazioni il corpo si legittimava rinviando ad un’idea di difesa e di sicurezza, e derivando dallo stesso ambiente operativo un alone di leggenda, un “mito destinato a penetrare profondamente nella cultura nazionale, richiamato nel momento della necessità della difesa del territorio avvenuta nel primo conflitto mondiale.” Ma quali sono i volti degli alpini? L’iconografia ricorreva a modelli reali: volti asciutti e arrossati da montanari, baffi con le punte assottigliate (secondo il vezzo del tempo), occhi fermi e limpidi: uomini di montagna, prima ancora che soldati. Il combattente alpino assume il ruolo e l’immagine propagandistica di simbolo della compattezza morale delle forze armate nazionali. Tutte le fonti concordano nell’attribuire al montanaro che indossa la divisa ed il cappello con la penna nera dei caratteri distintivi: sicurezza ed equilibrio, resistenza ai disagi e solidarietà, obbedienza e senso del dovere, pur nell’ambito di una guerra accettata con rassegnazione, piuttosto che compresa e voluta. La prima testimonianza in questo senso è di Cesare Battisti, deputato trentino al Parlamento di Vienna, volontario alpino catturato dagli austriaci ed impiccato nel castello del Buon Consiglio di Trento nel 1916. “L’alpino” scriveva poco prima della cattura, “non si chiede quale sarà il suo domani, non ha paura delle vicende peggiori in cui può lanciarlo un’azione sfortunata. La voce del dovere gli dice: va, ed egli va senza spavalderia alcuna. Perché quella sicura coscienza di sé, quel coraggio che si è creato attraverso lo spasimo, il dolore di intere generazioni di emigranti, si integrano nelle virtù proprie della razza montanina: la serietà, la persistenza, e la bontà squisita di cuore.” Eroici, astuti, capaci di imprese impossibili, determinati e compatti, gli alpini diventavano simbolo dello sforzo nazionale, garanzia di vittoria ed insieme esempio per chi, dalle città alle campagne lontane dal fronte, era chiamato a seguire la guerra attraverso i messaggi della propaganda ufficiale. In quegli uomini il popolo doveva trovare identificazione e sicurezza, ad essi sentirsi legato da una solidarietà umana oltreché patriottica: non a caso l’immagine più popolare disegnata da Beltrame era quella del dicembre 1916, con l’alpino che sotto la tormenta, a dorso di mulo, portava ai combattenti di prima linea i doni della patria per Capodanno. Spesso gli scultori incaricati di realizzare, negli anni a venire, i monumenti commemorativi alla Grande Guerra, prenderanno spunto da queste illustrazioni o dalle cartoline dei reggimenti per ritrarre la figura del soldato Alpino. Tuttavia l’esempio più celebre, e più ricorrente, è quello dei Monumenti realizzati dal Maestro Pietro Canonica. La prima raffigurazione del soldato Alpino la realizzò per il monumento alla Grande Guerra di Courmayeur, nel 1922. Due bozzetti preparatori sono conservati al Museo Canonica. Uno ne raffigura il dettaglio del viso, dai lineamenti fini e con folti baffi, ha l’espressione di attesa, di chi resta fermo e zitto ad origliare i passi del nemico, affrontando il pericolo per difendere la patria. Il secondo invece ne coglie l’intera figura, il fante è ritto in piedi, con il volto di tre quarti, la gamba destra leggermente sporta in avanti, indossa la divisa, il cappello con la penna e tra le mani regge la baionetta.
Non è colto durante un’azione di combattimento, ma questa figura riassume in sé i caratteri distintivi di tutti gli alpini, qui commemorati in modo celebrativo, come negli antichi monumenti, in cui il soggetto veniva ritratto con espressione fiera. La posa e la fisionomia del personaggio richiamano immediatamente alla mente le cartoline d’epoca stampate dallo Stato Maggiore e distribuite tra i soldati per la corrispondenza (figg. 1 e 2). Esse costituivano un ventaglio di “messaggi” indirizzati dalle forze armate al Paese, un’autorappresentazione riferita al modello di combattente che il Maestro fa proprio, probabilmente perché riconoscibile dalle masse. Il modello realizzato per Coumayeur venne poi riproposto dallo scultore anche a Roma (fig. 15), a Susa (1959), ed ad Asti l’unica variazione è rappresentata dalla mantella che scende scostata sulla spalla destra. Il gesso da cui derivano le fusioni bronzee fu destinato dallo scultore al nascente museo del forte di Exilles, ma ad oggi è conservato nella Caserma Assietta del III Reggimento Alpini a Oulx (fig.10). Le rappresentazioni del soldato alpino risultano essere estremamente dettagliate, l’uniforme indossata durante la guerra è raffigurata nei minimi particolari. L’uniforme grigio-verde, così denominata per il colore adottato, più idoneo alla mimesi dei soldati, venne adottata con la circolare n. 458 del 4 dicembre 1908, ma solo nel 1909 si ebbe una descrizione dettagliata dei singoli capi di vestiario. La giubba che indossavano gli alpini era in panno pesante grigio-verde, piuttosto ampia e comoda, ma “in modo che si acconci con garbo alla persona”, diceva la circolare; era ad un petto, chiusa da una fila di cinque bottoni di frutto grigioverde nascosti da una sovrabottoniera, collo in piedi, con punte arrotondate, guarnito dalle mostrine dell’arma. Sul dietro della giubba le cuciture dei fianchi erano aperte dalla vita in giù, per il passaggio del cinturino della buffetteria, ciascuna apertura era provvista di due bottoni di frutto per la chiusura. La giubba, foderata in tela di cotone basino grezzo, era provvista all’interno di due tasche a toppa all’altezza del petto e di una terza all’altezza della falda destra per il pacchetto delle medicazioni. Il piastrino di riconoscimento era cucito in fondo alla falda anteriore sinistra. Il gilet in panno grigio verde, con collo a V, era ad un petto, chiuso da una fila di bottoni di frutto e con quattro taschini, due al petto e due ai fianchi. Il dietro del gilet, in tela di cotone biasino grezzo, usato anche come fodera, era provvisto, all’altezza della vita, di un cinturino con fibbia regolabile. Camicia bianca con cravatta a solino bianco. Il pantalone per le truppe di montagna era largo e terminava sopra al polpaccio, dove veniva legato con due nastrini. Da sotto il ginocchio il pantalone veniva serrato nelle fasce mollettiere in panno grigio-verde. Una estremità di queste era a punta e fornita di due fettuccie grigie per fissare la fascia sotto il ginocchio. Come calzature ricevettero uno stivaletto in cuoio e vacchetta nero, basso, pesante e provvisto di notevole chiodatura. Lo stivaletto, aperto sul davanti, si chiudeva con laccio di cuoio tramite quattro occhielli e tre ganci. Il copricapo variò invece nel 1910 e, salvo alcune modifiche, è ancora in uso. In feltro di pelo di coniglio grigio-verde, a falde con calotta ovale e due fori ai lati per l’areazione, rinforzati da un occhiello di metallo verniciato in nero. La cupola doveva essere, secondo le disposizioni, liscia, ma l’uso delle due infossature sul davanti, dovute alla continua pressione delle dita nel calzarlo e nel toglierlo, ne fecero poi una caratteristica. Intorno alla base della cupola, un soprafascia in cuoio (2cm), con a sinistra una portanappina, anche esso in cuoio. Tutt’intorno alla soprafascia girava un cordoncino di lana grigio-verde. La falda, larga 80mm, aveva la parte posteriore ripiegata all’insù, e la parte anteriore trapuntata da cuciture a macchina concentriche. Sul lato sinistro, infilata nel portanappina c’era la nappina in lana cucita su un’anima di legno, posteriormente piatta e con gambo doppio per l’innesto. Superiormente la nappina era provvista di un foro per il passaggio della penna. Le penne potevano essere di corvo, pavone o tacchino “purché venissero dall’ala destra e la loro lunghezza, escluso il gambo, non fosse inferiore ai 18cm e non superasse i 20 cm. Il gambo deve essere lungo sui 5 cm.” Il fregio del cappello in lana verde, su panno grigio-verde chiaro, era costituito da due fucili incrociati caricati di una cornetta coronata, riportante nel tondino il numero del reggimento in lana bianca. Nel 1912 il cappello delle truppe di montagna venne dotato di un sottogola di “nastro di bavella” color grigio con fibbia in ferro nichelato. Sempre nello stesso anno entrò in vigore il nuovo fregio: un’aquila ad ali spiegate tenente tra gli artigli una cornetta caricante due fucili incrociati. Nel tondino della cornetta il numero del reggimento. Come soprabito le armi a piedi ebbero in dotazione una mantelletta a ruota, in panno pesante color grigio-verde, col colletto rovesciato.
Istituto centrale per il catalogo e la documentazione
Alpini, storia e leggenda – vol. I, Milano 1981, p. 130.
Durante la Prima Guerra Mondiale,nel corso del 1917,si costituirono dei reparti “arditi” (le cosiddette Fiamme Nere) aventi la funzione di truppe d’assalto e di rapido impiego, attorno alle quali si andò sviluppando un clima d’esaltazione della violenza e della bella morte, con atteggiamenti in gran parte retorici che furono poi cooptati dal Fascismo. Questa mentalità guerrafondaia era agli antipodi della concezione prevalente nelle truppe alpine, che considerava la guerra come male necessario o inevitabile e che bisognava fare per senso del dovere e spirito di sacrificio. Anche nell’ambito delle truppe alpine si costituirono degli speciali reparti arditi denominati “Fiamme Verdi”. Nei primi tempi nelle truppe alpine i reparti arditi non costituivano squadre speciali, facevano parte della truppa ed erano raggruppati solamente per particolari azioni. La più famosa di queste fu quella che si svolse il 15 Giugno1917 con la partecipazione determinante di un drappello di alpini arditi del Btg “Monte Mandrone” sul Corno di Cavento. Da quel momento cominciarono a costituirsi presso ogni Battaglione alpino plotoni di “arditi-esploratori” entro i quali affluivano elementi scelti sia per coraggio che per capacità sci-alpinistica. La divisa era costituita da pantaloni all’alpina, giubba aperta, maglione nero o grigio, camicia di flanella con cravatta nera.Sul risvolto della giubba venivano applicate delle mostrine (fiamme) di colore nero per la fanteria, cremisi per i bersaglieri e verdi per gli alpini. Sul braccio sinistro della giubba veniva applicato il distintivo di ardito in lana nera ricamata consistente in una daga romana col motto FERT (fig.21) sull’impugnatura ai lati della quale erano posti verso destra un ramo di quercia ed uno di alloro sulla sinistra uniti fra loro da un nodo di Savoia (circolare 455 del 12 luglio 1917). Anche Pietro Canonica nel bozzetto per l’Alpino di Courmayeur (fig 11), ritrasse l’ardito alpino, ben riconoscibile dalla giubba aperta e dal maglione in vista, anche se poi, nella scultura definitiva, rappresentò la classica uniforme da armi a piedi. Gli arditi non portavano lo zaino ed i pochi indumenti necessari venivano tenuti con i viveri in un più comodo tascapane. Erano esentati dai servizi di trincea e di corvee, ricevevano un miglior rancio ed un soprassoldo giornaliero di 20 centesimi. L’addestramento era tenuto lontano dal fronte ed erano impiegati in azioni di avanguardia delle colonne d’attacco e di rottura delle difese nemiche. Al termine della guerra i reparti arditi che già avevano cominciato a manifestare sintomi di estremismo politico (a destra con le squadre d’azione fasciste ed a sinistra con gli arditi del popolo) vennero sciolti e fu trasferito in Tripolitania un nucleo consistente della Prima Divisione d’Assalto. Anche in questa occasione le Fiamme Verdi mostrarono equilibrio e moderazione rimanendo ferme sulle posizioni a difesa dell’onore e della apoliticità dell’Esercito. La gran parte degli arditi alpini dopo il congedo confluì quindi nella grande famiglia dell’Associazione Nazionale Alpini, appena costituita, preferendola alla Associazione Arditi d’Italia ed agli Arditi del Popolo. Un ruolo fondamentale nella propaganda bellica e post bellica lo rivestì il settimanale “La Domenica Del Corriere”, supplemento illustrato del Corriere della Sera. Le tavole disegnate a colori e pubblicate in prima ed ultima di copertina rappresentavano l’avvenimento importante della settimana, e, accompagnate da brevi didascalie, giocarono un ruolo importante in un’Italia segnata da un alto tasso di analfabetismo. Durante la Grande Guerra “La Domenica Del Corriere” pubblicò un numero considerevole di immagini di guerra, a testimonianza dello sforzo bellico sostenuto dall’Italia, mostrando una guerra eroica e sufficientemente feroce da tener viva l’avversione nei confronti del nemico. Da questa scelta editoriale conseguì, a guerra finita, e ancora per parecchi anni, una sistematica documentazione della scultura monumentale a celebrazione dei caduti. Gli eventi eroici così dettagliatamente rappresentati, in cui spesso si distingueva il combattente Alpino, intento a difendere i confini della Patria, divennero esempio e spunto per numerosi scultori, che li utilizzarono come modello per la realizzazione di molti monumenti ai caduti. Un esempio è la storia di Giuseppe Caimi, studente e sportivo che giocò nell’Inter (e per breve tempo nel Milan), escluso dalla Nazionale olimpica, per cui era stato convocato da Vittorio Pozzo nel 1912, dopo una notte “sopra le righe” al night, ma che in guerra meritò tre medaglie d’argento e una d’oro, oltre che una copertina di Achille Beltrame sulla “Domenica del Corriere”, prima di cadere in combattimento contro gli Austriaci. Nel 1922 lo scultore Alfeo Battagi Bedeschi trasse ispirazione dalla storia e dall’illustrazione per la realizzazione del monumento ai caduti del comune di Brienno, sul lago di Como.
BibliografiaC. Battisti, Gli Alpini, Milano, 1916 , p. p.6; p. 41
Alpini, storia e leggenda – vol. I, Milano, 1981 , p. p. 130
G. Oliva, Storia degli Alpini dal 1872 ad oggi, Milano, 2001 , p.
A. Viotti, L’uniforme grigio verde (1909 - 1918), Roma, 1985 , p.
a cura di B. Cinelli, F. Fergonzi, M. G. Messina, A. Negri (a cura di), Arte moltiplicata: L’immagine del ‘900 italiano nello specchio dei rotocalchi, p. p. 322