Trittico del cardellino. Madonna con il bambino in trono e i santi Biagio e Sebastiano

trittico dipinto 1499 - 1499

Trittico, con cornice scolpita, dipinta e dorata, con timpano triangolare e predelle dipinte di ornati a chiaroscuro. Al centro la Madonna in trono con il bambino sulle ginocchia, che gioca con un cardellino; ai lati San Biagio benedicente, con pastorale, palma e pettine, e San Sebastiano legato al tronco

  • OGGETTO trittico dipinto
  • MATERIA E TECNICA tavola/ pittura a tempera
  • ATTRIBUZIONI Badile Antonio Ii (1424-1425/ 1507-1512)
  • LOCALIZZAZIONE Museo degli affreschi G.B. Cavalcaselle
  • NOTIZIE STORICO CRITICHE "Il ‘trittico del cardellino’ entrò nelle collezioni civiche fin dal 1812, in seguito alla demaniazione e soppressione della chiesetta dedicata a San Giacomo apostolo detto alla Pigna, dove Dalla Rosa nel 1803 lo ricorda nella sagrestia seconda come «tavola antica tripartita […] di stile duro e secco di Gerolamo Benaglio», di fronte alla pala di Francesco Morone del 1503, già rimossa dall’altar maggiore. Esso raffigura la Vergine in trono con il bambino eretto che stringe nella mano l’uccello simbolo della Passione; ai lati, san Biagio benedicente impugna la sottile canna del pastorale e il pettine del suo martirio; san Sebastiano letteralmente tempestato di frecce è legato al tronco di un albero, con lo sguardo rivolto verso l’alto. Le tre tavole si inseriscono a stento nella intelaiatura squisitamente rinascimentale della cornice lignea timpanata, costituita di motivi classici nei dadi con fioroni, nelle paraste scanalate, nei dentelli o nella curiosa metopa centrale della predella con il ghirigoro di una doppia grottesca. Ma all’interno dell’illusionistico spazio del loggiato, che precipita in primo piano nella consueta fenditura rocciosa, sbarrato dalla transenna di marmi screziati di contro al monotono fondale del cielo, le figure riescono ad incastrarsi a disagio, quasi compresse, come accade a san Biagio. Permane il gusto tardogotico della decorazione, tipico della produzione di Antonio Badile degli anni ottanta, che si diletta nei brani rabescati sul manto azzurro o in alcune finiture dorate dei fregi e delle passamanerie, ma nell’insieme sembra prevalere un modo più castigato, forse imposto dalla committenza. L’opera può dare il segno della serialità e spesso sconcertante ripetitività della bottega badilesca, con il ricorso agli stessi modelli ripescati e risistemati a varie riprese, come il volto di san Biagio trasferibile senza mutamenti in quello di san Benedetto nella pala di San Silvestro del 1487 (cat. 103) o nelle tavolette con i dottori della Chiesa di Castelvecchio e del Museo Canonicale, o ancora nei personaggi della Deposizione nel sepolcro. La figura allungata e sproporzionata di san Sebastiano, nella rigidità e secchezza delle forme, è emblematica nel documentare la difficoltà ad adeguarsi dignitosamente alla lezione mantegnesca che rimane lettera morta, bagaglio di superficie. Il pittore pare più interessato a rendere lo sguardo sognante del giovane dalla chioma inanellata, quasi memore di certe stereotipate soavità centroitaliane, secondo clichés che, trasferiti sulle grandi superfici dell’affresco, portano all’indebolimento grafico dei medaglioni della cappella Pellegrini in Santa Anastasia. L’opera si può datare dopo la Madonna dei cherubini, in prossimità del trittico di Sant’Elena del 1490, per la nuova versione improntata a una minore ricercatezza decorativa. Badile evita in questo trittico di arricchire le transenne con i vasi o i cespi di garofano rossi o rosa, come ama fare in un cospicuo gruppo di opere che nel 1908 Gerola aveva raccolto sotto l’etichetta del ‘Maestro del cespo di garofano’. Nel 1911 tuttavia lo studioso aggiornava le sue indicazioni proponendo per questo corpus il nome di Antonio Badile, figlio di Giovanni. Tale proposta, di recente ripresa e aggiornata da Guzzo (1993a), si basa sulla identificazione della Pietà già in collezione privata veneziana (negli anni 1908-1911), proveniente dalla collezione Monga di San Pietro Incarnario, con una delle due pale che Antonio Badile dipinse nel 1497-1498 per la chiesa veronese di Sant’Alò della Corporazione degli orefici. Il contratto con i pagamenti pubblicato da Biadego (1890) documenta l’esecuzione da parte di Antonio con la collaborazione del figlio Girolamo di due pale: «l’anchona a man drita con 3 figure di sancte» e «l’altra anchona dove se sona le champane con la pietà e con figure», dipinto coincidente con il Compianto sul Cristo morto con i santi Pietro e Girolamo della collezione veneziana, che presenta i caratteri tipici della produzione badilesca della fine del secolo, ormai libera da tentazioni tardogotiche, come documenta la Natività della chiesa di San Rocco a Quinzano (1500). Un’altra conferma addotta per l’identificazione del maestro veronese è offerta dalla pertinenza di molte sue opere alle chiese di Santa Maria Consolatrice, di San Giacomo, di Santa Anastasia e di Santa Cecilia, tutte gravitanti nella contrada di residenza della famiglia Badile, fin dai più antichi estimi e anagrafi appunto registrata nella contrada di Santa Cecilia" (da Pietropoli 2010, cat. 105)
  • TIPOLOGIA SCHEDA Opere/oggetti d'arte
  • CONDIZIONE GIURIDICA proprietà Ente pubblico territoriale
  • CODICE DI CATALOGO NAZIONALE 0500717513
  • NUMERO D'INVENTARIO 255
  • ENTE COMPETENTE PER LA TUTELA Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Verona, Rovigo e Vicenza
  • ENTE SCHEDATORE Comune di Verona
  • LICENZA METADATI CC-BY 4.0

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