Esperienza di giovane venditore ambulante di pere cotte, Padova anni Cinquanta Memorie autobiografiche
Gianfranco Lazzaris, ex gelatiere in Italia e in Germania, racconta la sua esperienza di giovane venditore di pere cotte a Padova negli anni Cinquanta. Inizia presentandosi: è nato a Villa, in Val di Zoldo, il 7 dicembre 1935. Terzo di otto fratelli e sorelle tutti nati a Villa. Non era molto bravo a scuola, a parte in matematica, le altre materie non gli interessavano. In quel periodo era ancora praticata nella zona l’attività dei venditori di pere cotte (che definisce #perari#), in particolare cita la frazione di Fornesighe. Suo nonno materno era #peraro# a Padova («per una sessantina di inverni»). All’età di 14 anni, dato che aveva la passione per gli sport e per la bicicletta, con l’intento di guadagnare il necessario per comprarsi proprio una bicicletta, chiese a suo nonno di portarlo con lui a fare la stagione invernale a Padova. Sottolinea che era un ragazzo robusto e di sana costituzione. Quando ha iniziato era l’inverno dell’anno 1950-1951, era membro di una compagnia di venditori composta da 33 persone ed era il più giovane. Continua dicendo che da quell’esperienza ha imparato: «la libertà, la democrazia e il rispetto». Non c’erano delle leggi, delle norme scritte che regolavano la compagnia (intendendo che vi erano una serie di consuetudini condivise e rispettate da tutti). Spiega l’organizzazione di questa compagnia: si poteva decidere di fare una settimana di prova, alla fine di questa però, se si decideva di restare, bisognava impegnarsi a rimanere almeno per tre mesi, per circa cento giorni. Il vitto era fisso: «cento piatti di minestra e fagioli» (sottolinea che quest’ultimi erano portati dalla valle). Si dovevano pagare 250 lire: 150 lire per l’alloggio, 100 per il vitto (che prevedeva anche, due volte a settimana, il martedì e la domenica, brodo con carne lessa). All’interno della compagnia tutti erano «allo stesso livello, non c’era distinzione». La giornata iniziava con la “chiamata”: ognuno ordinava la sua quantità di pere, che venivano acquistate in Emilia Romagna, erano di vari tipi tra cui la varietà Garzignolo, adatte da fare cotte, anche perché non si aggiungeva nulla in cottura. Venivano consegnate a peso (10 kg, 20 kg, etc…) e ogni membro le metteva a cuocere in un forno comune su una teglia, i #ferri#, contrassegnata con il proprio numero. Si cuoceva una parte a mezzogiorno, per uscire all’una, e parte la sera dopocena. Il luogo dove si cucinava era lo stesso in cui si alloggiava, il narratore ricorda ancora l’indirizzo Via Barbarigo 35 a Padova. Evidenzia anche la presenza di tre o quattro donne, locali, che si occupavano delle mansioni casalinghe (come preparare i pasti), il loro lavoro era già incluso nel costo del vitto e alloggio. Ritorna a specificare alcuni aspetti della “chiamata” mattutina delle pere: si ordinavano alcuni chili di pere “a credito” (avevano un determinato costo al kg) e si doveva saldare il giorno successivo rispetto a quello della consegna delle pere. Se il giorno seguente non si saldava, perché non si era venduto abbastanza, non veniva consegnata una nuova ordinazione di pere da cuocere. Ogni membro della compagnia doveva quindi pagare l’ordinazione del giorno precedente e se gli rimanevano dei soldi, quello era un guadagno di cui lui poteva disporre come voleva. I soldi versati invece venivano giornalmente depositati in banca. C’era un presidente, un cassiere, un responsabile, l’addetto ad infornare i #ferri#: tutti questi ruoli erano inclusi nelle 250 lire versate. Alla fine dell’anno, tolti i costi, veniva distribuito il rimanente ricavo. A questo punto inizia a descrivere il contenitore nel quale i venditori ambulanti conservavano le pere cotte pronte alla vendita: la bastardella. Una caldaia in rame con un braciere che teneva in caldo le pere. Si portava a tracolla. Quella che lui ha utilizzato non era personale, gli era stata prestata da un conoscente e ricorda con rammarico di non averla potuta “riscattare” perché gli sarebbe piaciuto averla. Ricorda che al pomeriggio lui andava anche in una zona di Padova chiamata Bassanello; le zone erano assegnate e se la zona era condivisa da due venditori, «il più giovane la praticava per primo e l’anziano per secondo, con una certa distanza per rispettare la concorrenza». Ricorda che lui percorreva circa 20 chilometri al giorno, si girava «di bettola in bettola», ristoranti, caffè, dove si giocava a carte, a biliardo, ma non si entrava al caffè Pedrocchi, non perché fosse vietato, ma «per rispetto» del luogo. Il venditore ambulante quindi entrava nel locale con la sua bastardella e offriva le pere cotte. I proprietari o gestori dei locali, in base alla sua esperienza, non erano contrari a questa modalità di vendita. Aggiunge un aneddoto: alcune volte, prima di cena, arrivava al Caffè Veneziani in Prato della Valle e trovava ancora all’interno il suo “collega” che chiacchierava davanti al banco. Lui entrava, faceva il suo giro per vendere e usciva. Afferma che molto probabilmente non ha mai avuto problemi dato la sua giovane età (ha fatto tre stagioni a 15, 16 e 17 anni): «non mi veniva escluso niente». Afferma di avere un buon ricordo dell’esperienza, ribadisce che «tutti rispettavano tutti, non c’era scritto niente», poteva esserci qualche screzio, qualche presa in giro ma nulla di serio. Dormiva in una camerata di venti persone circa. Conclude descrivendo il luogo dove viveva la compagnia: era in centro a Padova vicino al Duomo, era una specie di “masseria”: al piano terra vi era un forno, una retrocucina, un deposito legna, al piano superiore c’era una stanza, proprio sopra il forno, che era costantemente occupata la sera perché era il luogo più caldo, c’era uno spazio adibito a sala da pranzo con una lunga tavolata per 15/20 persone ed era anche l’ufficio di chi si occupava delle ordinazioni delle pere, di chi segnava il deposito giornaliero di denaro (si ricorda che questo compito era affidato al proprietario dello stabile)
- OGGETTO esperienza di giovane venditore ambulante di pere cotte, padova anni cinquanta memorie autobiografiche
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CLASSIFICAZIONE
memorie
- LOCALIZZAZIONE Val di Zoldo (BL)
- NOTIZIE STORICO CRITICHE Per maggiore completezza e un corretto inquadramento del bene inventariato si riportano, in estrema sintesi, alcuni aspetti e tematiche in cui si è sviluppato l’ampio fenomeno della mobilità dei gelatieri bellunesi. Quest’ultima è sempre stata caratterizzata da percorso pianificato nei dettagli ben prima della partenza, basato su pratiche collaborative, forti legami intergruppo e finalizzato al raggiungimento di una autonomia lavorativa dopo un primo periodo di acquisizione dell’esperienza necessaria. È una mobilità praticata ancora oggi, perché è stata, ed è, di successo, a differenza di altre forme di migrazione specializzata che hanno interessato gli stessi territori ma non hanno avuto seguito. È una mobilità stagionale che coinvolge una grossa parte del nucleo familiare del gelatiere. Questo ampio coinvolgimento ha un peso importante nella pianificazione della propria vita, nella costruzione degli affetti e nelle relazioni sociali, spesso divise tra due luoghi: quello del lavoro e quello della pausa invernale. Dal XVIII secolo in diverse zone del Bellunese si è stratificata una corrente migratoria diretta verso i principali centri della Pianura Padana, Venezia in primis. Progressivamente si è allargata verso l’Impero Austro-Ungarico, con Vienna come centro di forte attrazione. La mobilità era inizialmente caratterizzata, come in altre zone alpine, per la maggior parte da uomini che migravano nel periodo invernale, dediti a diverse tipologie di lavori specializzati. Circa dalla metà del XIX secolo, nella Valle di Zoldo e in alcune zone del Cadore (es. Zoppè, Valle di Cadore, etc…) si sviluppò una predilezione per una peculiare attività lavorativa: la produzione di alimenti dolci (caldarroste, pere cotte, frutta caramellata, biscotti, in dialetto #scòti, percòt, caraméi, zalét#) e il loro commercio ambulante organizzato in gruppi di uomini, le “compagnie”. Verso la fine dell’Ottocento iniziò ad affermarsi una nuova opportunità: la produzione e la vendita ambulante di gelato. Non esistono fonti certe su chi fu il primo ad iniziare e da chi imparò questo nuovo saper fare. Molto probabilmente, grazie alle già presenti pratiche di mobilità lontano dai luoghi di origine e alla frequentazione di centri cittadini caratterizzati da un grande fermento culturale, alcuni pionieri vennero in qualche modo in contatto con questa nuova pratica e la fecero propria velocemente. Storicamente è documentato che proprio in questo periodo il consumo di gelato si stava sempre più affermando, uscendo da quel consumo esclusivo da parte di nobili e aristocratici che lo aveva caratterizzato fin dalle sue origini. La potenziale clientela era quindi in espansione e il mercato vasto. Un’ottima opportunità da cogliere che ben si coniugava con le modalità organizzative già consolidate: produzione in un laboratorio, vendita con il carretto ambulante e con le “compagnie”, materie prime, ghiaccio e sale facilmente reperibili nei grandi centri, forte propensione allo spostamento per motivi di lavoro. Il successo ottenuto fu tale che in pochissimo tempo la pratica si diffuse nei luoghi di provenienza di questa prima avanguardia di uomini, alimentando e stimolando sempre più partenze. A Vienna la diffusione era tale che nel 1894 fu emanata una legge che rendeva oneroso il commercio ambulante, ma questa stimolò i gelatieri a diversificare iniziando una attività di vendita fissa: nacquero le prime gelaterie e la concorrenza con i pasticceri locali continuò. Questa nuova modalità di commercio del gelato si diffuse sia all’estero che in Italia, spesso affiancando la vendita con i carretti. L’alta redditività dell’attività portò ad ampliare sempre più le destinazioni non solo in Italia e in Europa ma Oltreoceano, ad esempio in Argentina. Si delineò anche una sorta di “strategia di distribuzione” delle mete: alcune condivise da tutti, come la Germania e l'Ungheria, mentre per altre c’era la tendenza a orientarsi verso una determinata meta, quasi esclusiva, rispetto al singolo territorio di partenza. Questo a causa del passaparola tra abitanti della medesima frazione, alla propensione a costruire gruppi legati da relazioni di amicizia e parentela e per non saturare il mercato. Ad esempio Vienna per la Val di Zoldo e Zoppè; la Boemia, la Polonia, l’Olanda per i Cadorini. La Prima guerra mondiale segnò il declino della diffusione dei gelatieri zoldani e zoppedini in territorio austriaco ma non all'affermazione dell’attività dei gelatieri che ricollocarono le loro attività in altre città italiane o all’estero, soprattutto in Germania. Quest’ultima diventò la meta privilegiata, in particolare dal secondo Dopoguerra, per una serie di diversi fattori favorevoli: contiguità geografica, boom economico, familiarità con la lingua tedesca e tutt’ora è la meta preferita. Dopo il Primo conflitto mondiale i luoghi di provenienza dei gelatieri e la trasmissione del sapere si allargarono progressivamente: non più solo Val di Zoldo e Cadore, ma zone dell’Agordino, Longaronese, Coneglianese, Vittoriese, Trevigiano, dando vita a modalità di saper fare, di rappresentarsi e di comunicarsi condivise e riconoscibili. Notizie estratte dalla ricerca condotta da Claudia Cottica, Iolanda Da Deppo, Letizia Lonzi, Loris Serafini, su incarico del Comune di Val di Zoldo, per la redazione di un progetto museologico per la realizzazione del Museo del Gelato e dei Gelatieri a Pieve di Zoldo BL
- TIPOLOGIA SCHEDA Modulo informativo
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AUTORE DELLA FOTOGRAFIA
Cottica, Claudia
Cottica. Claudia
Claudia Cottica
- CODICE DI CATALOGO NAZIONALE 05-ICCD_MODI_6228695877461
- ENTE COMPETENTE PER LA TUTELA Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per l’area metropolitana di Venezia e le province di Belluno, Padova e Treviso
- ENTE SCHEDATORE COMUNE VAL DI ZOLDO
- LICENZA METADATI CC-BY 4.0