Isernia La Pineta (tracce di frequentazione paleosuolo)

Isernia, Paleolitico inferiore

L'accampamento paleolitico di Isernia La Pineta rappresenta una delle più significative testimonianze dell'antico popolamento umano del continente europeo, fenomeno che iniziò, a partire dall'Africa, già prima di 1 milione di anni fa. Scoperto nel 1978, il giacimento è stato oggetto di ricerche sistematiche in modo continuativo a partire dal 1979. Gli scavi, tuttora in corso, sono diretti dall'Università di Ferrara su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Gli scavi sistematici sono stati realizzati in due distinte zone indicate come settore I e settore II. Il motivo di questa scelta si deve ai rilievi eseguiti lungo le sezioni poste in luce con gli sbancamenti effettuati in profondità alla fine degli anni '70 per la costruzione della strada veloce Napoli-Vasto che portarono in luce una cospicua successione di depositi per uno spessore anche superiore ai dieci metri. Il controllo delle sequenze esposte, la verifica in sezione della concentrazione dei materiali paleolitici e la necessità di intervenire nei punti più a rischio di distruzione portarono all'identificazione di alcuni ricchi contesti che vennero interessati da scavi sistematici. Il I settore di scavo è posto a nord del rilevato ferroviario, ricoperto da un moderno padiglione inaugurato nel 1999, progettato per consentire, in modo continuativo, la visita del pubblico. Un ballatoio, posto a pochi metri di altezza, contorna internamente tutto l'edificio e consente una visione d'insieme dei reperti posti in luce e delle stesse attività di scavo. In questo modo il visitatore ha la possibilità, in particolare nel periodo estivo, di essere partecipe, in diretta, dell'esplorazione degli antichi suoli di abitato e delle metodologie adottate per la raccolta di ogni possibile informazione desunta dall'esplorazione del sito. Il II settore di scavo è stato esplorato soltanto nel 1979 ed era posto a sud del rilevato ferroviario. Quest'area è stata indagata sistematicamente per consentire l'ultimazione dei lavori di sbancamento della superstrada per la sua definitiva realizzazione. Caratteristica peculiare di questo settore è la grande abbondanza di reperti in selce associati ad una ridotta quantità di frammenti ossei, contrariamente a quanto invece riscontrato nel I settore di scavo. L'insieme delle informazioni raccolte consente di affermare che l'insediamento preistorico era posto nelle immediate vicinanze di un ambiente umido, probabilmente un piccolo bacino lacustre caratterizzato, in modo discontinuo, dall'emersione di formazioni travertinose. Si ipotizza che queste ultime venissero frequentate perché offrivano maggiore protezione al gruppo umano in quanto attorniate dall'acqua e da una consistente vegetazione palustre. La frequentazione dell'area è stata intensa, come attestano i moltissimi reperti ossei e litici rinvenuti in scavo su alcune centinaia di metri quadrati. Anche i numerosi sondaggi di verifica realizzati su una superficie complessiva di quasi un ettaro, oltre ai rilievi eseguiti nel 1978-79 lungo le sezioni esposte della costruenda superstrada Napoli-Vasto, ci informano su una distribuzione di materiali preistorici ben più ampia di quella accertata con gli scavi, su qualche migliaio di mq. A tutto questo, a conferma della frequentazione ripetuta nel tempo di questa particolare area, si aggiunga la successione stratigrafica di più archeosuperfici, separate anche da livelli sterili. Complessivamente sono quattro i suoli d'abitato identificati, caratterizzati dalla presenza di migliaia di reperti faunistici e litici distribuiti in vario modo e con concentrazioni differenti. L'età dell'insediamento è il risultato di più fattori che nel corso dei trent'anni di attività si sono affinati per lo sviluppo di nuove e più appropriate metodiche. Gli studi cronostratigrafici (stratigrafia, pedologia, paleontologia dei macro e microvertebrati, analisi palinologiche) e le caratteristiche tecnico-tipologiche dei reperti litici concorrono nell'attribuire il sito alla fase iniziale del Pleistocene medio, in particolare al Galeriano definito in ambito internazionale dall'insieme faunistico de La Pineta. Questa attribuzione cronologica è rafforzata dalle date ottenute con metodi fisici e chimici, in particolare col decadimento radioattivo di alcuni elementi contenuti in minerali di origine vulcanica. Le ultime indagini su cristalli di sanidino provenienti dai livelli sovrastanti le archeosuperfici hanno restituito un'età di 610.000 anni fa. La serie stratigrafica è stata indagata in dettaglio su uno spessore complessivo di oltre 20 metri, sia con lo scavo sistematico sia con la realizzazione di sondaggi a carota continua che hanno permesso la verifica delle caratteristiche dei depositi più profondi. Alla base vi sono sedimenti lacustri non compatti, prevalentemente sabbiosi e limosi di colore bruno chiaro. Essi presentano alla sommità una bancata di travertino (Unità 4) dello spessore massimo di qualche decina di centimetri, formatasi nella fase terminale del bacino lacustre quale conseguenza del suo riempimento. II travertino, dopo l'emersione, viene alterato da fenomeni pedogenetici, in parte eroso e deformato dalla neotettonica. Nel II settore, sul travertino poggia un potente deposito argilloso bruno, ricco di screziature di ferro e manganese ad aggregazione poliedrica; nella parte basale contiene una notevole concentrazione di reperti in selce di piccole dimensioni, associati a pochi resti faunistici. Seguono depositi argillosi e ghiaiosi di debole spessore sormontati da coltri di materiale vulcanico (Unità 1) risalenti a circa 500 mila anni, intercalati a sedimenti colluviali. La serie termina con uno spessore di una trentina di centimetri di terreno interessato dai lavori agricoli. Nel I settore la sequenza è più complessa. Sul travertino, alterato da fenomeni pedogenetici ed eroso, si impostano depositi di natura fluviale e colluviale ricompresi dell'Unità 3, di seguito descritta nelle sue linee generali: "Sabbie rosse" grossolane (3H) dello spessore di qualche centimetro, contenenti materiale vulcanico, poggiano sulla superficie erosa del travertino; su di esse si imposta il primo suolo di abitato (conosciuto in letteratura con la sigla 3c) caratterizzato da una discreta concentrazione di reperti faunistici e litici, tra i quali si annoverano anche manufatti su calcare. L'archeosuperficie 3c è ricoperta da un deposito fluvio-lacustre a bassa energia, riconducibile, ad un episodio di esondazione (3F; 3b nella sequenza archeologica); lo spessore di questo deposito è di circa 70 cm. e contiene abbondanti ceneri vulcaniche; il livello è del tutto sterile in reperti antropici; presenta tracce di vegetali molto compressi e per questo motivo indeterminabili; Sul 3b poggia un secondo livello archeologico, il più ricco tra tutti quelli esplorati, individuato con la sigla 3a, suddiviso in fase di scavo in sottounità (3aa, 3a(3, 3aaI, 3aaII, ecc.) per meglio definire i rapporti reciproci dei reperti, soprattutto dove massima è la loro concentrazione; molto frequenti sono i resti ossei appartenenti a un rilevante numero di specie animali, anche di grande taglia, associati a strumenti in selce e in calcare, questi ultimi meno numerosi, ma più grandi; frequenti sono inoltre i ciottoli e i blocchi di travertino; La paleosuperficie 3a è ricoperta da sedimenti colluviali differenti e non omogenei per tessitura, composizione e colore: • "Sabbie verdi" (3G) sono presenti esclusivamente a NE del I settore; contengono abbondante materiale vulcanico (augite e sanidino) e clasti calcarei e di selce; • Limi e sabbie colluviali (3E, "colluvio"), con spessore decimetrico, suddiviso in tagli artificiali (3coll, 3s1-9) per facilitare l'asportazione dei reperti in relazione alla loro definizione stratigraficaa e planimetrica, ricoprono la paleosuperficie 3a in direzione sud/ovest. Alla sommità di questo deposito si individua una terza archeosuperficie nota con la sigla 3S10; da questi depositi provengono i minerali vulcanici che hanno consentito la datazione radiometrica del giacimento; Seguono, in rapida successione, depositi fluviali caratterizzati da argille, limi e ghiaie (Unità 2) dello spessore di circa 3 metri, con evidenti incisioni di antichi canali. I sedimenti, verso la sommità, presentano una consistente alterazione pedogenetica che testimonia momenti di interruzione del loro accumulo con sviluppo della copertura vegetale. E' durante queste fasi che gli agenti atmosferici assieme a fattori del biodegrado hanno agito alterando i depositi sottostanti arrivando, sporadicamente, ad intaccare in limitate zone, l'archeosuperficie sottostante. Chiude la serie lo strato arativo riconducibile alle recenti attività agricole. Il giacimento di la Pineta offre un insieme ampio di informazioni sul modo di vita di una comunità umana di 600.000 anni fa. Fortunate circostanze, rappresentate da sedimenti fluvio-lacustri, ne hanno permesso la conservazione con un rapido seppellimento. Un contributo si deve anche ai depositi vulcanici che, fin dalla fasi iniziali della presenza umana, sono testimoniati da coltri consistenti. Questi ampi fenomeni hanno interessato l'insieme dei materiali preistorici, probabilmente modificando in parte la posizione originaria in alcune porzioni esplorate, ma non limitando l'estremo interesse scientifico che i reperti, e la loro associazione, sono in grado di offrire per la ricostruzione di una delle fasi più significative della nostra storia evolutiva. Le ricerche consentono di affermare che l'insediamento era posto nelle immediate vicinanze di un ambiente umido, caratterizzato dall'emergenza di strutture travertinose che contribuivano a definire limitate superfici, contornate dall'acqua e da una abbondante vegetazione palustre. Si trattava di un habitat piuttosto complesso che offriva maggiore protezione rispetto al territorio circostante, più aperto e più competitivo, soprattutto per la presenza dei grandi predatori. L'ambie

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