Ponte romano sul Rio della Torre (ponte, infrastruttura viaria)

Santo Stefano Al Mare, età romana imperiale

All’interno del Fundus Porcianus, lungo il corso del Rio della Torre si collocano i resti di un ponte romano di grandi dimensioni, conservato solo a livello di rudere. Il pilone rivolto a monte è tuttora in piedi, l’altro, in seguito ad un cedimento, è crollato addossandosi al primo. Le prime notizie relative al ponte risalgono al 1882, quando il rudere viene segnalato a Girolamo Rossi, che ne pubblica la scoperta in “Notizie degli Scavi” (ROSSI 1873). Successivamente le strutture murarie sono state oggetto d’indagine da parte di Pietro Barocelli (BAROCELLI 1932, pp. 26, 28). La tecnica muraria adottata per la costruzione del ponte prevede la realizzazione di due paramenti in blocchetti di arenaria locale e di un nucleo interno composto da elementi non lavorati dello stesso materiale misti a malta di calce. I paramenti sono realizzati in petit appareil, costituito da blocchetti lavorati a spacco o sbozzati disposti su filari rettilinei che definiscono una tessitura piuttosto omogenea e regolare. Il materiale impiegato è rappresentato prevalentemente da arenarie, per l’esattezza si tratta di siltiti, un tipo a grana molto fine, che presenta strati regolari che sfruttano la stratificazione naturale della roccia caratterizzata da piani precisi di scistosità. Le dimensioni dei blocchetti si attestano sui 10, cm per l’altezza e sui 15/30 cm per la lunghezza; i giunti e i letti di malta misurano circa 2 cm. I contorni delle pietre non sono sempre visibili, in quanto coperti dalla malta stesa in fase di rifinitura e stilata a ferro con uno strumento a punta. Lo stato di conservazione lacunoso del ponte, consente di osservare la disposizione dei caementa all’interno del nucleo, erroneamente definito “a sacco”, che risultano, invece, “apparecchiati” per strati secondo un andamento regolare e tendenzialmente rettilineo. Parallelamente allo studio della tecnica muraria è stata effettuata la campionatura della malta, che sottoposta all’esame di laboratorio, è risultata piuttosto omogenea per consistenza, composizione e tipologia (Inerte di sabbia marina di provenienza locale, costituita essenzialmente da quarzo, calcare marnoso e arenaria; scarsamente classata, con dimensione max. dei granuli che si attesta sui 2 mm, sfericità bassa, arrotondamento dei granuli da subarrotondati a subangolosi. Le analisi sono state effettuate dal dott. Roberto Ricci dello SMAA Studio di Mineralogia Applicata all’Archeologia - Genova), ed è, con buona probabilità, pertinente alle strutture originarie. In un caso l’analisi al microscopio ottico ha rivelato tracce di caolino e il campione è quindi stato sottoposto ad un ulteriore analisi (Diffrattometria ai raggi x, effettuata dal dott. Antonio Cucchiara del DIPTERIS di Genova) che ne ha confermato la presenza, aprendo la strada ad una serie di problemi interpretativi sul possibile utilizzo del caolino come idraulicizzante per le malte, pratica molto diffusa nell’antichità, ma non è attestato in Liguria prima del tardo Medio Evo, periodo in cui lo troviamo impiegato a Genova nei moli del 1300/1500, importato da maestranze bizantine. (SCOCCIA 2003)

ALTRE OPERE DELLA STESSA CITTA'